Per buon parte del ‘400 i rapporti fra Lucca e Firenze erano stati difficili. Dopo la pace di Lodi (1454) sebbene Lucca avesse aderito alla lega tra Francesco Sforza, la repubblica di Venezia e Firenze, quest’ultima aveva tentato di ordire una congiura nei suoi confronti. Lo stesso era accaduto nel 1490 senza però risultati concreti. La situazione sembrò cambiare improvvisamente nel 1492, l’anno in cui morì Lorenzo il Magnifico e venne eletto al soglio pontificio lo spagnolo Rodrigo Borgia col nome di Alessandro VI.
Le relazioni fra la Repubblica e la città del Marzocco ritornarono particolarmente critiche al tempo della venuta in Italia di Carlo VIII quando Firenze fu l’unica città ad opporsi al suo esercito diretto verso Napoli e Pisa ne approfittò per tentare di liberarsi dal giogo fiorentino contando sull’ aiuto di Lucca. Allora i termini apparenti della contesa vertevano sul possesso di Motrone e Pietrasanta che la Repubblica fu costretta ad acquistare per una somma ingente prima da Carlo VIII e poi dal suo successore, Luigi XII. L’avventura francese in Italia era però giunta al suo termine e nel 1504, con l’armistizio di Lione, alla Francia restò solo il ducato di Milano. Nel frattempo, dopo il breve pontificato di Pio III, era salito al soglio pontificio il papa Giuliano della Rovere col nome di Giulio II che, dopo Venezia – indotta a rinunciare alle sue conquiste in terraferma- voltò le sue mire contro la Francia (lega Santa) alleandosi con i Cantoni Svizzeri, la Spagna, l’Inghilterra e la stessa Venezia. Pressato su tutti i fronti, Luigi XII sebbene vincitore sul campo, preferì ritirarsi dalla scena lasciando per sempre Milano. In questo susseguirsi tumultuoso di avvenimenti e di guerre, Lucca aveva tentato di barcamenarsi cercando di risolvere, con il denaro dei suoi mercanti, i momenti più difficili. A Firenze non erano però sfuggiti i suoi reiterati tentativi di aiutare Pisa giunti perfino all'espediente di attrarre dalla parte della città ribelle anche Genova e Siena. Firenze aveva risposto con veri e propri atti di guerra che inclusero anche una singolare manovra di boicottaggio commerciale. Dopo avere devastato la Versilia nel 1508, aveva poi costretto la città ad accettare l’impegno della più assoluta neutralità da garantire con la sospensione dell’aggiudicazione del possesso di Motrone e Pietrasanta. Quando, però il 7 giugno del 1509, dopo una coraggiosa resistenza, Pisa fu costretta ad arrendersi a Firenze, quest’ultima passò alle vie di fatto ignorando del tutto il patto di alleanza fra le due città firmato pochi mesi prima (1 gennaio 1509).
Lucca rispose appellandosi all’imperatore Massimiliano I a cui concesse in dono 9.000 ducati d’oro e quindi pronto a riconoscere alla munifica città il possesso di Montecarlo e Barga. La morte di Giulio II che, nel 1511 aveva lanciato un interdetto contro Lucca per avere concesso ospitalità ad alcuni cardinali diretti al concilio organizzato a Pisa per deporlo, sembrò risolvere la difficile questione del possesso della Garfagnana che era stato il vero oggetto del contendere fra il papa e la Repubblica. Invece, l’elezione al soglio pontificio di Leone X cioè di Giovanni dei Medici, figlio di Lorenzo, riacuì i contrasti fra Lucca e Firenze. Chiamato, infatti, a fungere da arbitro fra le questioni dei due stati, il papa Medici si mostrò subito molto sensibile alle istanze della città in cui la sua famiglia aveva da poco ripreso il potere. Motrone, Pietrasanta e Barga passarono definitivamente sotto Firenze e Lucca fu costretta a rinunciare anche al possesso della Garfagnana dopo la riappacificazione del papa con gli estensi.1
Terrorizzata dal potere dei Medici e dalle prospettive di un’azione congiunta fra Firenze e Roma per ridurla in catene come Pisa, Lucca inaugurò una imponente politica difensiva confidando nell’intraprendenza dei propri mercanti e nelle capacità persuasive del denaro. Nel frattempo, però, decise anche che era giunto il momento di mostrare il proprio volto guerriero e, nell’impossibilità di mettere in campo un forte esercito, per mancanza di uomini e soprattutto di abili e fedeli condottieri, iniziò a riorganizzare le proprie difese murate secondo le nuove tecnologie della scienza militare del tempo.
Per questo motivo, nel luglio del 1513 il Consiglio Generale avviò il programma per provvedere alla sicurezza e alla fortificazione della città e dei suoi borghi e, dopo una stima eseguita dai periti del comune, si procedette ad abbattere gli edifici circostanti iniziando «dalle fondamenta del monastero degli Angeli, oltre la porta San Pietro, fino a dove si ritiene che debba essere fatta questa demolizione».2 Successivamente iniziò la costruzione dei primi torrioni che, tutt’ora, si vedono inglobati nei baluardi3 e che rappresentavano allora i più moderni strumenti di difesa contro le nuove tecniche di assedio.
Senza spazio libero esterno non ci può essere una moderna architettura della fortificazione», osserva Amelio Fara che aggiunge «La città protetta da mura moderne deve quindi essere contornata da una striscia di terreno, di adeguata profondità e priva di ingombri visivi, che prende nome di spianata.4
La capacità di resistere di una città murata dipendeva, infatti, in gran parte dagli accorgimenti esterni che impedivano l’avvicinarsi del nemico. Ecco perché l’anno 1513, quando si abbatterono i borghi di San Pietro e San Donato e si tagliarono tutti gli alberi, sradicando anche le viti, per un raggio di mezzo miglio (il miglio lucchese misurava 3000 braccia vale a dire m.1771) intorno alla città, si può considerare a giusto titolo l’inizio di quel sistema di fortificazione, realizzato nel corso di un secolo e mezzo, che ancora oggi sopravvive integro nella parte architettonica.
A prima vista potrebbe sembrare che questa fase non sia stata particolarmente impegnativa, ma non è così. In primo luogo gran parte dei terreni interessati e degli edifici da abbattere erano di proprietà privata. Per questo motivo l’Offizio sopra le Entrate venne incaricato di far stimare terreni e immobili. Era inoltre necessario liberare l’area dagli alberi abbattuti e dalle macerie dei borghi distrutti e, per tale scopo, l’Offizio sopra le Fortificazioni ottenne l’autorità di requisire carri e bestie da soma in tutto il territorio dello Stato. Come è facile immaginare, le stime pubbliche non vennero spesso considerate soddisfacenti dai proprietari e tenace opposizione incontrò la demolizione di abitazioni e di edifici sacri come le antiche chiese di San Pietro e di San Donato, nonostante la promessa di ricostruirle altrove.
Nel cosiddetto Libro A delle note di cose attinenti alla chiesa e priorato dei Santi Paolino e Donato, un tempo conservato nell’Archivio parrocchiale, il priore Paolo Guidotti racconta, in tono accorato e non senza una punta di polemica, come iniziò la demolizione della sua chiesa, ubicata all’incirca dove ora si trova il baluardo di San Donato, in direzione di via San Paolino, alla cui estremità sorgeva la porta occidentale delle mura romane e di quelle medievali: «A di 28 di agosto 1513 fu per il Comune di Lucca con grande strepito et rovina cominciato a buttare a terra la chiesa di S.Donato extra et prope portam Sancti Donati et così seguì alla rovina di essa e della canonica con stalla et altre sue circostanze, la quale canonica sola con i suoi membri compresi insieme fu stimata per Stefano Bertolini, stimatore degli insolubili di detto Comune et di Commissione del Magnifico Gonfaloniere Matteo Trenta et Antiani. La chiesa non volsero stimare la quale per la maggior parte dei capi maestri che si trovavano alla rovina la stimorno che non fusse stata fatta manco di 20.000 scudi».
Dalle parole del priore Guidotti, che nel suo resoconto mette in evidenza che la chiesa aveva «14 bellissime et alte colonne di marmo di Carrara», emerge il disappunto del clero e la scarsa fiducia nello stimatore comunale che, nell’interesse dello Stato, si limitò a valutare le parti accessorie senza pronunciarsi a proposito della chiesa. Il comportamento del Bertolini è facilmente comprensibile. Pur sapendo che anche l’edificio sacro avrebbe dovuto essere compensato, evitò di pronunciarsi sul suo valore perché i debiti contratti dall’erario pubblico erano tanti che sicuramente non potevano essere sopportati dal bilancio annuale ed era quindi necessario mandare alle lunghe le pratiche di risarcimento. I ritardi accumulati dall’erario nei confronti della Chiesa furono tali che 16 anni dopo, nel febbraio del 1529, il protonotario apostolico Bartolomeo Arnolfini redarguì con severità i membri del Consiglio Generale a proposito della chiesa di San Pietro Maggiore, che aveva subito la stessa sorte di quella di San Donato, perché provvedessero «discretamente alle dicte cose tanto della Ecclesia, quanto interessi e danni et sgravar le loro coscienze et sua e non buttarsela dopoi alle spalle come insino a qui si è fatto».
Il fatto che la costruzione della struttura vera e propria delle nuove mura inizi nel 1544 con l’architetto Jacopo Seghizzi si deve alle difficoltà incontrate dalla Repubblica nel trovare tecnici disposti a stabilirsi a Lucca, ma anche alle ristrettezze finanziarie determinate dai rimborsi per le tagliate e le demolizioni, a cui si aggiungeva la crisi economica. Nel 1540 il Comune per pagare i propri debiti - «pro inveniendo modum et viam ut nostrum Commune eximatur a multis debitis» -dovette varare un decretum resecationis, quello che oggi definiremmo taglio della spesa pubblica, obiettivo che veniva allora raggiunto anche diminuendo gli stipendi dei funzionari statali. I ceti meno abbienti del popolo non stavano meglio, se il Consiglio Generale dovette quasi supplicare i mercanti di non interrompere l’attività produttiva per evitare che gli artigiani più poveri fossero ridotti alla fame, cui si aggiungeva il flagello della peste: «Quod hoc tempore pestis mercatores nostri non cessent ab ipsorum exercitio artis serici ut pauperes artifices victum parare possint».5
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